Diario di viaggio. La mia America, o giù di lì (fm)
pubblicato il 21 settembre 2013 su Il Giunco.net
introduzione a cura di Simone Pazzaglia
Quello che sto per raccontare non è un viaggio, né una vacanza, è un regalo per il mio mezzo secolo di vita e per questo non smetterò mai di esserne grata a mio marito e ai miei figli, che per tre settimane hanno rinunciato alla mia “onnipresenza”, e a mia cognata che lo ha reso possibile proponendomi di accompagnarla a conoscere i cugini d’America.
Sì, è proprio così. Io non sono una grande viaggiatrice, faccio piuttosto parte della folta schiera dei viaggiatori nell’animo, quelli che, seguendo le orme di Salgari, hanno usato tutti i possibili surrogati pur di nutrire i propri occhi e la propria fantasia con le meraviglie di mondi lontani. Certo oggi è più facile, ma questa ricerca minuziosa, questo allenare la mente alla scoperta, l’attitudine a non guardare nulla nella sua veste ordinaria, lascia il cuore aperto allo stupore semplice delle piccole grandi meraviglie della vita e la volta che il viaggio (quello con V quasi maiuscola) ci capita davvero, riusciamo a viverlo con l’intatta intensità delle grandi avventure.
In fondo il mio è un diario di viaggio nell’emozione della prima volta che…
29 ottobre. Albeggia e l’aria frizzante del primo mattino ci avvolge in un odore di terra umida ed erba appena tagliata. Ci salutiamo qui, sul cancello di casa, perché è più facile darsi un abbraccio e un bacio come se fosse un giorno normale. Invece è così strano, da quando ci siamo sposati abbiamo sempre fatto tutto assieme e questa è la prima volta che ci separiamo per più di due giorni. Mi mancheranno, lo sento già, come io mancherò a loro, ma per me sarà più facile perché avrò tante cose da vedere, persone da conoscere e anche il solo comunicare, col mio macilento inglese, sarà un’impresa epica!
Mezzogiorno. In fila al gate, pronti per l’imbarco. L’eccitazione è la stessa del primo giorno in una nuova scuola e il mio mezzo secolo regredisce rapidamente verso l’infanzia, quella con gli occhi che brillano e la bocca sempre aperta in un incontrollabile sorriso.
Primo volo transoceanico. Ovviamente lato finestrino, dove prevedo di lasciare indelebile l’impronta del mio naso, nubi permettendo.
Le nubi non permettono e, salvo qualche fugace abbacinante sprazzo di oceano, le prime ore passano in una deludente lotta coi vuoti d’aria nel tentativo di riempire gli schemi delle parole crociate con uno stampatello che, inevitabilmente, vira verso il geroglifico… Uffa!
Poi un’ombra all’orizzonte si avvicina e il cuore inizia a fare capriole. Nemmeno il tempo di accorgersene che siamo già sopra New York!
Si tratta di un semplice scalo per le formalità dell’Immigrazione e potremo ammirarla solo dall’alto, ma che spettacolo!
Di fronte all’agente di polizia, impeccabile e immenso nella sua divisa (ma li scelgono apposta tutti così alti?) cerco vanamente di resettare il cervello nella modalità english mentre mi chiede di appoggiare il dito sul rilevatore di impronte digitali e guardare la fotocamera senza sorridere. Senza sorridere? E chi ci riesce! “I’m so happy to be here!” Così ora sorride pure lui.
“Ecco, sei schedata in America” commenterà in seguito mio figlio.
Sì, ma con un gran sorriso!
Ora è sicuro: per le prossime tre settimane avrò l’aria da scema, non riuscirò a porci rimedio e non me ne importa niente.
Il tempo fra un volo e l’altro basta appena per attraversare il JFK alla bersagliera. Mentre trotto trascinandomi dietro un trolley riottoso e anarchico non posso fare a meno di pensare che deve esserci una sorta di perfida regia dietro la scelta di gate d’imbarco tanto distanti, sicuramente da qualche parte un pool di supervisori si gode ridendo le caracollanti acrobazie di una folla che più variamente assortita non si potrebbe.
E via. Sotto di noi la sera accende lampioni e finestre, parchi, giardini, campi da baseball e cortili, resi diafani dalla velatura lacera di nubi leggere, opalescenti come i veli di una bajadera. Il mosaico ordinato dei palazzi si offre allo sguardo in prospettive capovolte che si tuffano nel terreno anziché puntare verso l’infinito e raccontano brandelli di vita che ancora si possono cogliere: una pattuglia in motocicletta, ragazzi che si rincorrono nei riflettori di un campetto di periferia. Auto parcheggiate nei vialetti. Poi un ultimo balzo e le vie sono solo scie che si diramano fuori dell’abitato come pigri tentacoli luminosi.
Voliamo alla volta de La ciudad de los angeles, fuggendo la notte che avanza, incontro all’arco infuocato di un tramonto sospeso che sembra non volersi arrendere al buio e insiste a sfumare d’indaco e d’oro, fra terra e cielo.
Il sonno appartiene a un mondo dimenticato, come potrei privarmi di tanto splendore. Una dopo l’altra le città da quassù somigliano a silenziosi fuochi d’artificio che fioriscono in lontananza, si allargano e subito scompaiono.
Ho perso il conto delle ore quando ci viene incontro la marea scintillante di LA. A perdita d’occhio. Man mano che l’aeromobile perde quota, regalando contorni nitidi alla costellazione di distretti che circonda la Downtown, mi coglie un senso di rammarico, una volta a terra, tutto tornerà inevitabilmente umano, concreto, tattile. Un po’ mi dispiace.
1 novembre. Hollywood, arriviamo!!! E con noi arriva la pioggia. Quattro anni senza una goccia d’acqua (parola di Joy) e non ti va a piovere proprio nell’unico giorno a nostra disposizione per passeggiare lungo la Walk of fame? La pioggia tarpa le ali al ricco carnet della giornata, addio visita in vettura aperta fra le ville dei divi, ma tutto sommato preferisco confondermi nel chiassoso andirivieni dei marciapiedi. Due occhi e due orecchie non bastano per raccogliere la marea di sensazioni, suoni, odori ed emozioni che ci circonda. Lascio l’ammirazione all’Hard Rock Cafè, fra un disco di platino e un anello di cipolla fritta, l’empatia al Grauman’s Chinese Theatre dove mi faccio immortalare di fronte all’impronta di Eddie Murphy (in tono con la mia innata propensione per le situazioni tragicomiche) la fantasia a Rodeo Drive fra Tiffany e Cartier, lo stupore negli Studios della Universal. Ovunque i simulacri di un Halloween appena trascorso in tutto il suo tradizionale folklore, dentro la certezza che tutto finirà troppo in fretta.
2 novembre. Quarto giorno in America e ancora il senso di irrealtà non mi abbandona, ovunque inquadrature da telefilm, compreso il poliziotto paffuto che mangia ciambelle dentro l’auto dagli inconfondibili sportelli bianchi. Armo la fotocamera quando, con la bocca piena e il “bidone” di caffè nell’altra mano, sporge la sinistra fuori dal finestrino agitando il dito in modo eloquente e perentorio. Peccato, mi era appena balenata l’idea balzana di… lasciamo perdere. Oggi è un gran giorno. Gita organizzata, bus gran turismo, dodici ore lungo la Interstate 15N verso il Gran Canyon West via Las Vegas, con guida… cinese?!? Eh già, in questo periodo era l’unica “gita in autobus/guida bilingue” a disposizione. Assieme a noi si aggrega anche un gruppetto di ragazze spagnole. Nessun problema, non fosse che le spiegazioni, ovviamente, sono in cinese e americano. Dopo un rapido scambio di occhiate io e una delle ragazze ci siamo alternate nel compito di alzare la mano e “Repeat please” è diventato il tormentone del giorno. All’ottava delle nove ore di viaggio to Vegas la nostra simpatica guida si è finalmente arresa a parlare l’inglese con la lentezza adeguata alle nostre capacità di comprensione e tutto si è fatto più semplice.
Devo ammettere che Las Vegas by night è da togliere il fiato, ma al sorgere del sole decade nella malinconia di una finzione scenografica esasperata, come un pierrot nottambulo e stanco della lunga kermesse, ripiegato su se stesso, frettoloso e insofferente.
L’esplosione delle fontane danzanti, il fasto del Cesar Palace, del Bellagio o di Venice, brillano racchiusi in un cristallo scuro che teme la consapevolezza del giorno.
3 novembre. Il deserto del Nevada coperto di nubi è uno spettacolo rarissimo, così ci assicura la guida. Davvero una fortuna per noi che veniamo da un luogo dove a novembre piove un giorno sì e l’altro pure! Mi guardo intorno temendo di scorgere Fantozzi compresso nel vano portaoggetti e incrocio le dita, ma questa volta, per fortuna, il deserto rivendica a gran voce il suo primato di sole e di arsura.
Gran Canyon West- Hualapai Reservation.
Le distese di Yucca, i nativi che raccontano una fierezza avvilita dal presente e dal male di vivere. La polvere sottile, il vibrare delle lamiere ondulate dell’autobus della riserva. La pelle che si fa ricettacolo per espandere la capacità di assorbire sensazioni, fino ad annullare la percezione del corpo e lasciarsi permeare dall’immensità policroma che ci circonda.
Memoria ancestrale, culla, protagonista e vittima delle nostre miserie, la Grande Madre dispiega le sue mirabili forme nell’abbraccio eroso del fiume e sembra urlare in faccia a questi figli ingrati e ribelli che osano percorrerla.
L’elicottero descrive una secca virata, si piega e per un attimo ho la sensazione di essere sospesa nella mirabile levità di un’illusione, racchiusa nel palmo di un sogno bambino.
Oggi ho raccolto un pugno di sabbia rossa, il miglior ricordo che potrò mai portare con me.
Quinto giorno in America, il sole tramonta dietro una mesa, l’autobus sobbalza sulla strada sterrata, con la testa appoggiata al finestrino mi lascio ipnotizzare dagli steli fioriti di Red Yucca che frangiano l’orizzonte in un bizzarro gioco di prospettive. Ombre si allungano a est mentre ad ovest le rocce si accendono. Forse una freccia trafiggerà la portiera di questa diligenza argentea e una tromba suonerà la carica. Forse sto già dormendo.
Domani andremo a Malibu, dopo domani a San Juan Capistrano e dopo domani ancora… tre settimane sono così brevi e le cose da vedere così tante, non basterebbe una vita per vederle tutte…
Francesca Montomoli
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